Giovanna Botteri: “Il giornalismo si riappropri della sua missione”

intervista di Generoso Verrusio pubblicata su Fare News

Una laurea in Filosofia e un dottorato in Storia del cinema alla Sorbona. Poi la grande passione per il giornalismo con gli inizi sulla carta stampata e l’approdo in Rai. Per 13 anni è stata corrispondente di guerra, da Sarajevo all’Iraq, prima di andare negli Stati Uniti, poi in Cina e adesso in Francia. Giovanna Botteri è la vincitrice dell’edizione 2022 del premio Granzotto. “Umiliato da decenni di servilismo, nei confronti del potere politico e delle lobby, il giornalismo ha in questo preciso momento storico un’opportunità unica: tornare a essere credibile agli occhi delle persone. In gioco c’è la democrazia”.

Con la guerra in Ucraina (ri)scopriamo che esiste la propaganda e che del giornalismo ce n’è bisogno come il pane.

“Credo che la propaganda ci sia sempre stata. Più sottile, subdola, meno plateale forse. Quando ero negli Stati Uniti ho seguito l’inchiesta del Congresso sulle manipolazioni degli hacker russi durante la campagna per le presidenziali del 2016. Un’operazione pensata e organizzata, che ha richiesto anni di preparazione. La ‘macchina’ creata continua a lavorare ancora adesso. Complice inconsapevole il social network. Uno spazio libero, senza controllo. Con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta. Il bombardamento di notizie, l’infodemia che abbiamo già conosciuto durante il Covid, ha creato confusione, ed ha azzerato le certezze. Di chi fidarsi? A chi credere? Il giornalismo serio, competente, affidabile, trasparente entra in gioco proprio in questo momento. Umiliato da decenni di servilismo, nei confronti del potere politico e delle lobby, rovinato da protagonismi inutili, costretto a rinunciare all’approfondimento in nome della necessità di essere immediatamente fruibile, semplicistico e breve, oggi il giornalismo deve riscattarsi. Deve ritrovare il suo senso più profondo, etico. La sua passione. Lo so che suona retorico, e magari anche un po’ ridicolo. Ma io penso sia in gioco l’idea stessa di democrazia”.

Che cosa ci dice la vicenda della lista dei ‘putiniani d’Italia’ e del Copasir sullo stato di salute del nostro ‘quarto potere’?
“Il dibattito sui ‘putiniani’, sulle ‘liste nere’, sulle prese di posizione del Copasir sugli ospiti delle trasmissioni televisive, credo sia l’esempio più evidente di quello che dicevo. Il giornalismo non deve avere paura di affrontare tesi o posizioni diverse o opposte. Anzi. Deve spiegare, chiarire, far capire a tutti quello che sta succedendo. I miei bravi e competenti colleghi corrispondenti da Mosca riportano la propaganda russa, una posizione, un punto di vista, che è importante da conoscere e confrontare. I miei bravi e competenti corrispondenti da New York o da Londra fanno lo stesso. Gli inviati sul campo in Ucraina ci raccontano quello che succede. L’orrore di un paese invaso, bombardato quotidianamente, dove si muore e si soffre per mano russa. E dove esiste ugualmente un controllo sulle notizie da far uscire, una propaganda. Il giudizio storico sui fatti è semplice. C’è un paese invaso e un paese invasore. Ai giornalisti non spetta giudicare, ma informare. Dare a tutti la possibilità di scegliere, capire fino in fondo il dramma della guerra, delle conseguenze sulla nostra vita. Chi ci legge o ci ascolta deve poter capire il diritto alla sovranità territoriale, il riconoscimento internazionale di questo diritto, perché si muore nel Donbass, perché sono scattate le sanzioni, se le sanzioni funzionano, perché i prezzi dell’energia stanno lievitando, perché continua a salire il costo della vita, perché il grano è bloccato e cosa si rischia con una nuova carestia in Africa, i pro e i contro dell’invio di armi in Ucraina. Perché oltre la propaganda, i punti di vista, le risse televisive, gli interessi, le bugie e le posizioni contrastanti c’è una linea rossa precisa. Che è la realtà dei fatti. Ed è quella che noi dobbiamo sempre e comunque cercare”.

Se l’estradizione di Juliane Assange negli Usa e la sua condanna a 175 anni fossero confermate come ne uscirebbe il principio della libertà di stampa nel mondo occidentale?
“La vicenda Assange è decisamente molto, molto complessa. Wikileaks ha contribuito a far chiarezza su molti aspetti oscuri della guerra in Afghanistan e di quella in Iraq. Sui rapporti fra stati, sugli interessi americani, la diplomazia nascosta. Ha anche contribuito ad affondare Hillary Clinton con le sue rivelazioni in campagna elettorale. I rapporti con la Russia, dove la gola profonda Snowden si è rifugiato, non sono ancora chiari. Né è stato mai chiarito il criterio per cui, di fronte a decine di migliaia di documenti segreti, Assange abbia scelto di far uscire alcune rivelazioni e non altre. Sono questioni che mi piacerebbe rivolgere, sempre e comunque, ad un uomo libero”. 

Stati Uniti, Cina e adesso Parigi: una vita, professionalmente parlando, da corrispondente. Quali consigli a un giovane che volesse intraprendere questa specialità del giornalismo?
“Per i ragazzi che si avvicinano al giornalismo e hanno voglia di occuparsi di esteri consiglio subito di studiare. Le lingue, la storia, la geografia, l’economia, la finanza. E poi di tener duro, di non arrendersi, di non accettare la soluzione più facile o più evidente. Ho fatto per 13 anni la corrispondente di guerra, da Sarajevo all’Iraq, prima di andare negli Stati Uniti, poi in Cina e adesso in Francia. Spesso mi è capitato di arrivare nei posti con un’idea e di uscirne con un’altra. Questo è importante sempre per noi. Riconoscere i fatti ed accettare la realtà, anche quando fa male”.

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