Un libro intenso e vibrante, resoconto preciso di una storia incredibile, allucinante e dolorosa. Gaia Tortora, a 40 anni dall’arresto di suo padre, uno dei volti più noti della Rai insieme a Mike Bongiorno, Corrado Mantoni e Pippo Baudo, racconta la sua storia e quella della sua famiglia in “Testa alta, e avanti”. Il libro è finalista alla 59esima edizione del Premio Estense.
Il 17 giugno 1983 comincia il calvario di Enzo Tortora. Il 15 settembre 1986 arriva l’assoluzione con formula piena in appello. Il 17 marzo 1988 la Cassazione conferma. Fu un tragico errore quello che patì, un caso di malagiustizia o che altro?
“Sarebbe stato un errore se quella vicenda si fosse conclusa velocemente. Purtroppo, tutti gli elementi che avrebbero potuto scagionare mio padre non furono presi in esame dai magistrati, a partire dall’uso quantomeno disinvolto, per non dire spregiudicato, dei pentiti. Undici cialtroni che già altre sentenze avevano definito senza alcuna attendibilità decretarono la colpevolezza di un uomo. Non ho nessuna remora a definire questa vicenda un caso da manuale di accanimento giudiziario”.
Che cosa ricordi di quel 17 giugno. Avevi l’esame di terza media… poi dopo aver visto le immagini di papà con le manette ai polsi rimanesti letteralmente senza parole.
“Sì, quel giorno dovevo consegnare la tesina. Ero la sesta a dover essere interrogata, ma diventai la prima. Alla fine dell’esame venne a prendermi mia sorella Silvia e di primo acchito pensai fosse successo qualcosa di brutto a nostra madre. Che ci fosse aria di tempesta, però, lo capii di prima mattina: il telefono cominciò a squillare prestissimo, la radio era accesa ma con il volume basso. E poi il colpo di grazia: vedo papà in televisione salire sul cellulare che lo porterà a Regina Coeli. Da quel momento mi congelo e non riesco a pensare e a dire nulla. Nulla”.
La nostra categoria, per usare un eufemismo, non fu irreprensibile nel notiziare quel fatto. Che cosa non andava nel giornalismo di ieri? E in quello di oggi?
“Nella vicenda di mio padre una certa magistratura è andata a braccetto con una certa informazione. Hanno spolpato un uomo innocente. Ciò che non andava in quel tipo di giornalismo, a mio avviso, è ciò che continua a non funzionare ancora oggi: non si può dare credito alle tesi di una sola procura, sarebbe quantomeno opportuno mettere in moto una procedura accurata di verifica delle fonti e, soprattutto, ricordare che quando si ha a che fare con la vita delle persone non è permesso trasformare la cronaca in un derby tra due tifoserie o tra opposte fazioni”.
Tuo padre era un apprezzato collega, scrisse moltissimi articoli soprattutto su La Nazione e il Resto del Carlino. Anche tu e tua sorella Silvia, infine, siete approdate alla carriera giornalistica e avete conosciuto il mestiere “dal di dentro”.
“Quando papà morì avevo 19 anni e in quella fase era già diventato un personaggio televisivo. Ebbi modo di conoscere il giornalista della carta stampata solo a posteriori. Rileggendo alcuni suoi pezzi viene fuori il profilo di un giornalista attento, arguto, documentato e di grandi letture. Io sono diventata una giornalista per reazione allo scempio che mio padre ha dovuto subire. Mi sono detta che ci sarei dovuta entrare in una redazione, per provare a fare il mestiere in modo diverso”.
Perché questo libro a tanti anni di distanza?
“Non potevo pensarlo né a 14 né a 20 anni un libro così. Banalmente, mi è stato chiesto di farlo e ho pensato che fosse giunto il momento giusto di scriverlo. Vuole essere non tanto e non solo un segnale verso una visione della giustizia come bene di tutti, ma soprattutto uno strumento nelle mani delle persone che hanno passato o stanno passando uno strazio come quello della mia famiglia e che non hanno la possibilità di farsi sentire, si vergognano, soffrono in silenzio e non hanno un conforto”.
Chi era Enzo Tortora?
“Un uomo onesto, una persona perbene che credeva nelle istituzioni, nel suo mestiere, nella giustizia e nella magistratura. Era un uomo divertente. Che abbia dovuto vivere la parte finale della sua vita con la morte dentro è un fatto che non mi dà pace”.
Testa alta, e avanti. Per guardare l’ingiustizia negli occhi?
“Per andare avanti nonostante tutto e tutti. Per cercare di cambiare le cose. Soprattutto nella nostra professione”.
(Generoso Verrusio )