Francesco Costa: “L’America è ancora un paese di frontiera” Intervista a Francesco Costa, autore di "Frontiera. Perché sarà un nuovo secolo americano", primo libro finalista del Premio Estense 2024

Crediti foto: Claudio Sforza

 

di Giuseppe Nuzzi

Gli Stati Uniti hanno affascinato questa parte di Occidente – e non solo – per lunghissimi decenni, ma adesso sembrerebbe che la luce a stelle e strisce sia destinata ad affievolirsi. O almeno questo è quello che ritengono i più: ma per Francesco Costa l’America resisterà molto a lungo. Con qualche accortezza. 

Il suo libro parla del Nuovo Mondo, quella “frontiera” che è la quintessenza dell’Occidente. Un Occidente però anche in declino: perché, allora, sarà un nuovo secolo americano? 

Perché gli Stati Uniti restano la più grande potenza economica, tecnologica, scientifica e militare del pianeta, e perché con la pandemia è finita una fase: l’ascesa della Cina si è fermata, l’atteso sorpasso non ci sarà, mentre gli Stati Uniti galoppano e stanno riorientando la loro intera economia. Che sarà un nuovo secolo americano non vuol dire che gli Stati Uniti non avranno problemi, o sconfitte, o rivali, o che non faranno disastri. Nel Novecento accaddero tutte queste cose. Ma erano gli americani a dare le carte.

Quali grandi differenze evidenzia tra americani ed europei, entrambi occidentali ma ciascuno a modo proprio? 

Molte di più di quante pensiamo. Il rapporto con il rischio, quello con il sacro, con lo Stato, col denaro. Una differenza grande e cruciale, poi, riguarda soprattutto noi italiani. Gli americani tendono a partire dalla premessa che la persona di fronte a loro sia onesta: ma non perché siano buoni, tanto che poi reprimono ferocemente e senza deroghe ogni infrazione delle regole. Noi siamo l’opposto: diamo per scontato che la persona di fronte a noi voglia imbrogliarci, ma davanti alle infrazioni siamo abituati al “solo per questa volta, ok?”.

L’America è ancora oggi un Paese di ‘frontiera’? E di che tipo? 

La sua popolazione è ancora un giovane miscuglio di etnie e culture provenienti da ogni parte del mondo, e questo la rende ancora un paese di frontiera. Ed è ancora il paese dal quale trovano origine la gran parte dei cambiamenti che poi rotolano altrove.

Esiste ancora il sogno americano? E quello europeo? 

Il sogno americano non è mai stato un biglietto della lotteria con premio garantito. Quando ci chiediamo se esiste “ancora” stiamo idealizzando un passato che non esiste. Il sogno americano è sempre stato avere l’opportunità di farcela ed entrare nella classe media, sapendo che un eventuale fallimento sarebbe rovinoso. Le opportunità continuano a esserci, e in abbondanza; il fallimento continua a essere rovinoso. Il “sogno europeo” mi sembra esista soprattutto per chi in Europa sogna di arrivarci: per le persone nordafricane e per quelle ucraine, per esempio. 

Il mito del denaro e dell’abbondanza americani valgono anche per l’Europa?
Molto meno. L’economia americana si regge sui consumi interni. 

Quale impatto ha l’innovazione tecnologica nel mantenere la supremazia americana? 

Basti pensare a come il dispositivo che abbiamo in tasca e i suoi servizi abbiano cambiato la nostra società, creando professioni che non esistevano e distruggendone altre, cambiando linguaggi, abitudini, relazioni… Oppure all’influenza delle università statunitensi sulla comunità scientifica internazionale. Ma tutto questo non accade perché gli americani siano migliori degli altri. L’innovazione viene spesso da persone che americane non sono. Ma in quale paese trovano le condizioni migliori per realizzare queste innovazioni?

Quali sono le maggiori sfide che gli Stati Uniti devono affrontare oggi? Tra queste rientra anche Donald Trump? 

Per le istituzioni statunitensi l’intera esperienza politica di Trump è stata una specie di pressure test: il tentativo di restare al potere nonostante la sconfitta, l’attacco al Congresso, i processi e le condanne, la questione dell’immunità. Lo sarà ancora, nel breve termine. Ma la sfida del secolo per gli Stati Uniti è legata alla rivalità con la Cina. Il fatto che sia cambiata una fase non vuol dire che le cose non possano cambiare di nuovo.

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