Luca Fregona: «Aspirazioni, sogni e demoni» di quei ragazzi del Vietnam Intervista a Luca Fregona, autore di "Laggiù dove si muore. Il Vietnam dei giovani italiani con la Legione straniera", secondo libro finalista del Premio Estense 2024

di Chiara Putignano

Dalla guerra in Vietnam è passato del tempo. Eppure la maggior parte delle storie dei giovani italiani arruolati nella Legione straniera francese restano ancora un mistero. Un vaso di pandora scoperchiato nel 2021 con “Soldati di sventura”. Da allora Luca Fregona continua a ricevere richieste di famiglie di dispersi e caduti.

Perché sette, anzi settemila, giovani italiani avrebbero dovuto arruolarsi nella legione straniera francese per una guerra tanto lontana?

Immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la Legione straniera era un approdo naturale per una generazione bruciata dagli orrori (fatti o subiti) della guerra. Una lunga fila di “ex qualcosa” con una vita da ricominciare daccapo. Gli italiani erano la seconda nazionalità più numerosa dopo i tedeschi: ex fascisti, ex partigiani e prigionieri di guerra ingaggiati  dai francesi direttamente nei campi di concentramento in Nord Africa. Questi “ex qualcosa”, seppur ancora giovanissimi, avevano già avuto esperienze di combattimento, sapevano cosa li aspettava. L’impatto con la disciplina brutale della Legione, sebbene traumatico, non era comunque così devastante. La Legione, per loro, era una specie di zattera di salvataggio per tirarsi fuori dai guai e dalla resa dei conti del dopoguerra. Già a partire dal 1946, però, il cliché classico del legionario romantico, criminale o dannato, in bilico tra espiazione e redenzione, cambia radicalmente. Non si trattava più solo di reduci in fuga, ma di giovani nati tra il 1922 e il 1935, in gran parte senza alcuna esperienza militare, che scappavano da un nemico più feroce e immeritato: la miseria. In centinaia espatriavano clandestinamente in Francia in cerca di lavoro. Una volta scoperti, venivano messi di fronte a un bivio: galera (e poi il rimpatrio) o Legione. Molti accettavano l’ingaggio semplicemente perché non avevano scelta. Era comunque un lavoro con una paga.  Alla fine della ferma di cinque anni, si otteneva la cittadinanza francese con la promessa di un’occupazione dignitosa. Implicita pesava però una clausola non indifferente: dovevano prima sopravvivere. Quei giovani, ex minatori o clandestini, sapevano poco o nulla della Legione, delle sue regole, della brutalità; ignoravano che l’ingaggio (incoraggiato dalle autorità francesi che non potevano contare sui soldati di leva), fosse un biglietto per l’inferno. E ancor meno sapevano dell’Indocina, di Ho Chi Minh e delle colonie. Si calcola che siano stati dai sette ai diecimila i giovani italiani che hanno combattuto in Indocina con la Legione straniera dal 1946 al 1954: 526 sono i caduti “ufficiali”, a cui vanno aggiunti i dispersi (un numero imprecisato), i disertori morti di stenti e malattie nei campi viet, i feriti, e quelli tornati fuori di testa per lo stress post traumatico.

Qual è stata la sfida più grande nella raccolta delle testimonianze e delle storie personali dei legionari?

Scrivere il libro è stato semplice. Con i legionari ancora in vita ho trascorso molte ore, li ho sentiti e risentiti sugli stessi episodi. Siamo diventati amici. Mi hanno fatto leggere documenti, rapporti, corrispondenza. Certi vecchi hanno bisogno di tempo per ricordare, fidarsi, superare le reticenze, confidarti anche le cose di cui si vergognano. I loro demoni, gli incubi che ancora li agitano. Avevo tutto chiaro in testa. Ho incrociato i loro racconti con informazioni raccolte in banche dati, libri, archivi, nei rapporti militari. L’apporto delle famiglie, poi, è stato fondamentale. Avevo già scritto un libro, Soldati di sventura, con altre testimonianze molto circostanziate raccolte negli anni. Dopo la pubblicazione, ho iniziato a ricevere mail, messaggi, telefonate da figli, fratelli, nipoti di altri legionari italiani. Scrivevano dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania. Era la prima volta che trovavano scritta su carta una storia che i loro cari, reduci di Indocina, non raccontavano volentieri, ma che gravava come un’ombra oscura. Molti di quei legionari hanno faticato a rientrare nella vita normale. C’è chi ha bruciato il resto dell’esistenza nell’alcol o in una vita randagia. E c’è chi ha voltato le spalle alla vita facendola finita. Nella scrittura ho inserito alcuni “espedienti” narrativi per  spingere sui “non detto”, sulle emozioni che percepivo nei colloqui, sulle cose che hanno voluto farmi capire con un cenno degli occhi o un gesto. I fatti riportarti però sono fedeli. Qua e là, ho alleggerito la crudezza di alcuni episodi.

Come mai nel raccontare ha scelto di utilizzare la prima persona?

Per dare un ritmo più forte, portare il lettore a immedesimarsi. Io mi metto di lato e faccio parlare i protagonisti. Nella mia testa, la scrittura deve essere un flusso continuo che rispetta l’esperienza, le motivazioni e il travaglio di uomini che, all’epoca, erano solo dei ragazzi. Non giudico, tocca al lettore farsi un’idea. La prima parte di “Laggiù dove si muore” è incentrata sul racconto di Giorgio Cargioli, un legionario ancora vivente di La Spezia. Con lui ho passato giornate intere a rivivere i suoi anni di Indocina. E’ stata un’esperienza così intensa, che la prima persona è venuta da sé. Cargioli era espatriato clandestinamente a 18 anni nella primavera del 1953. Era entrato in Francia dal “Passo della morte”, il sentiero dei contrabbandieri che parte da Ventimiglia e che ancora oggi è utilizzato dai migranti. Un sergente della Legione lo convinse a firmare l’ingaggio in cella, dopo che essere stato arrestato dalla gendarmeria. Giorgio tentò di disertare già in Algeria. Poi ha combattuto in Indocina, nel Delta del Tonchino, sino al cessate il fuoco del 21 luglio ‘54. Dopo l’armistizio, disertò di nuovo per non essere costretto a fare le stesse cose in Algeria. Ma il suo calvario in Vietnam non era ancora finito…

Tra le storie raccontate, ce n’è una che l’ha colpita particolarmente? Se sì, perché?

Sono affezionato a ogni storia e a ognuno dei sette protagonisti del libro. Ogni vita raccontata merita il medesimo rispetto. Mi interessava capire perché un ragazzo di 17, 18 anni molla tutto e firma l’ingaggio. Qual era il suo vissuto “prima”. Le aspirazioni, la disperazione, i sogni anche. Un ragazzo di Bolzano, Afredo Decarli, ucciso a Dien Bien Phu due settimane dopo essere sbarcato a Saigon, è stato convinto ad arruolarsi da un reclutatore che agiva illegalmente sul territorio italiano. Questo trafficante di essere umani, pagato al “pezzo”, lo aveva illuso che nei cinque anni di ingaggio sarebbe diventato così ricco da ottenere finalmente l’assenso al matrimonio dei genitori della sua fidanzata (erano contrari perché lo consideravano di un ceto sociale inferiore). Questi reclutatori non avevano alcun tipo di scrupolo morale.

Ha detto che sono state proprio le famiglie a inviarle fotografie, lettere, cartoline e ritagli di giornale. Chiedendole di ricostruire una storia «che non trovavano da nessuna parte». Che feedback ha ricevuto da loro dopo la pubblicazione del libro?

Moltissimi. E continuo a riceverne. L’ultimo qualche giorno fa, meriterebbe un libro a parte. Mi ha scritto una signora, figlia di un legionario disertore e di una vietnamita. Il padre aveva disertato dopo aver maturato una profonda avversione alla guerra colonialista. Dopo la fine del conflitto, era rimasto a vivere nel Tonchino. Ha sposato questa ragazza, di cui era innamoratissimo, e hanno avuto quattro figli. Agli inizi degli anni ‘60, deluso dal regime comunista e dalle difficili condizioni di vita in Vietnam, era riuscito a portare moglie e figli in Italia. In famiglia ha raccontato sempre poco della guerra. La figlia, che è ancora in contatto con le zie in Vietnam, voleva capire che esperienze avesse vissuto il papà durante il conflitto. Un’altra signora in una foto a pagina 308 ha riconosciuto il fratello, Luigi Baldassari, di cui non sapeva più nulla dal 1950, da quando si era ingaggiato nella Legione. Luigi, amico di uno dei legionari raccontati in “Laggiù dove si muore”,  è stato ucciso vicino a Huè nel 1952. Alfredo Decarli, quel ragazzo di Bolzano di cui parlavo prima, non figura nella  banca dati dei caduti in Indocina. La sorella mi aveva chiesto di darle una mano per capire che fine avesse fatto. Si era illusa fosse ancora vivo da qualche parte. Con un canale della Legione, siamo arrivati al fascicolo che si era perso nei meandri della burocrazia militare. E’ venuto fuori che era stato ammazzato a Dien Bien Puh il 19 aprile 1954, lunedì di Pasqua, e decorato con la Stella d’argento per essere “Morto per la Francia”. Aveva solo 20 anni. La famiglia ha saputo la verità nel 2023. A volte, grazie ad alcuni canali, riesco a trovare tracce come questa. Altre, purtroppo, no.

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