di Chiara Putignano
«Ognuna determinata a svelarsi a sé stessa e al mondo. Con la propria individualità e insieme parte di un movimento». É dalle storie di queste donne coraggiose e unite da «un amore combattente» che nasce “Love Harder” di Barbara Stefanelli. E che, ancora oggi, sfidano il regime.
In “Love Harder” raccoglie storie di “ragazze ribelli”. Com’è nata l’esigenza di raccontarle?
Le ragazze iraniane sono arrivate a noi, a me, con una forza che io non avevo mai incrociato. Postavano in diretta sulle piattaforme digitali le loro storie, con il loro nome, le loro parole, i loro pensieri. Ciascuna determinata a esprimersi, a svelarsi a sé stessa e al mondo. Ciascuna con la propria individualità e tuttavia insieme, parte di un movimento. Una di loro scrisse: “non dimenticateci, non dimenticate i nostri volti, i nostri nomi, la nostra battaglia non si disperda nel sangue. Sappiate che siamo qui”. Quel flusso di immagini, di desideri che prendevano la forma della lotta, mi è sembrato una novità clamorosa: giovani donne, a volte adolescenti, che si erano messe alla testa dei cortei e che non avevano alcuna intenzione di essere raccontate da altri. Di essere filtrate. Nella Storia credo non sia mai successo con tanta evidenza e consapevolezza. La storiografia dimostra, al contrario, che le figure femminili si sono disperse nella narrazione, sono state modificate, spesso diminuite e spente. Quelle stories, quindi, stavano costruendo una Storia inedita. Nel dolore, nella tragedia, c’era una luce che bucava il nero, la negazione, anche la morte di alcune tra loro. In tutto questo ho letto una doppia chiamata: a restare accanto a loro, almeno raccogliendone la memoria; a riflettere sulla nostra propensione a sentirci “distanti”, ad accenderci e spegnerci intorno a destini di chi presto dimentichiamo passando ad altro o forse a nulla.
In che modo ha scelto le protagoniste?
Ho pensato a poche protagoniste che potessero riverberare il senso di molte altre storie, di decine, centinaia di storie iraniane. E poi ho cercato un contatto diretto per ciascuna. La famiglia, gli amici, loro stesse fuggite e approdate in Italia. Così è andato componendosi un paesaggio che parte da Anima Shakarami, un’adolescente, passa per Aida Rostami, medico e attivista, fino ad approdare a Elaheh Tavakolian, madre di due gemelli rimasta accecata in manifestazione. Sono donne distanti per età, per militanza, per esperienza. Unite, però, da questo amore combattente che è il cuore del libro. Con loro ci sono alcuni uomini: i primi condannati a morte, scelti nel mucchio e impiccati per scoraggiare la ribellione, e due musicisti, Shervin e Toomaj, che hanno scritto e cantato la colonna sonora della rivoluzione. Toomaj, in particolare, è diventato un eroe nazionale: il rapper condannato a essere appeso a una gru perché i testi dei suoi brani sono stati interpretati dal regime come prove di un reato. Corruzione sulla Terra e inimicizia con Dio. Toomaj è stato salvato dalla morte, per ora, grazie a una gigantesca mobilitazione dentro e fuori l’Iran. Il suo destino è, anche, legato alla nostra capacità di non smettere di chiedere giustizia e libertà per chi vuole semplicemente decidere della propria vita. Non c’è corruzione, non c’è inimicizia né con Dio né con gli esseri umani. Al contrario, la sua musica reclama vita e spazio per tutti. Per lui, il gruppo torinese degli Eugenio in via di Gioia ha scritto e pubblicato un brano “Farò più rumore del Ratatata” che è nato nel segno di un’alleanza artistica che ha l’obiettivo di cui dicevamo prima. Non dimenticare, non passare ad altro. Così sono nati due spettacoli teatrali, portati in scena in Italia dal regista rifugiato Ashkan Katibi: “Le mie tre sorelle” e “Lui”. Questo circuito di impegno e creatività è stato per me il vero dono di Love Harder.
C’è una storia o un personaggio che l’ha colpita di più?
La storia da cui tutto è partito è quella del primo capitolo. Nika. Una ragazza di 16 anni che va in manifestazione dicendo una piccola bugia alla zia con la quale viveva a Teheran. “Non mi aspettare, questa sera resto a dormire da un’amica”. Invece aveva deciso di unirsi al primo dei cortei che riempirono le strade delle città iraniane per protestare contro la morte di un’altra ragazza, Mahsa Jina Amini, pestata dalla polizia cosiddetta della moralità per il velo indossato non perfettamente. Ecco in quella adolescente che esce di casa con il suo zainetto, brucia il velo, lancia qualche sasso verso i paramilitari in moto e finisce a sua volta pestata a morte ho visto il braccio steso contro il cielo delle giovani donne che non solo in Iran vogliono mettere fine a ogni forma di sottomissione. Mi sono chiesta che cosa avrei fatto io se mia figlia, che ha più o meno l’età che avrebbe oggi Nika, mi avesse chiesto di uscire per gridare il nome di Mahsa Jina Amini e per mettere di traverso il suo corpo a quell’intreccio di leggi, consuetudini, pregiudizi consapevoli e inconsapevoli che spinge indietro le donne.
A proposito di Mahsa Amini. Nel 2022 è diventata simbolo delle proteste nel mondo. Da allora crede che la partecipazione occidentale si sia indebolita?
La partecipazione occidentale si è spenta. La loro capacità di rischiare no. Il fiume dei cortei del 2022 si è trasformato in un’onda di piccoli grandi atti di disobbedienza civile. Uscire senza il velo può costare la vita, ancora. Non andare a votare può essere l’unica espressione di dissenso rimasta in processi elettorali sempre controllati dal regime. Girare un film e poi farlo recapitare all’estero clandestinamente può comportare la perdita di ogni possibilità di esercitare la professione di regista o attore. Postare un brano rap su YouTube può causare una condanna ad anni di carcere. Io credo che tenere lo sguardo fermo verso queste persone – donne, uomini, artisti, attivisti – abbia ancora più senso oggi. Siamo portati a credere che i regimi siano garanti, rispetto alle democrazie liberali, di ordine di e controllo. Io penso invece che generino caos, dentro i propri confini e tutto intorno. La nostra libertà di espressione, di voto, di autodeterminazione dovrebbe ricordarci che non possiamo essere libere e liberi da sole e da soli, magari addirittura “contro”. Non funzionerà. Il sistema farà crac in più punti se sceglieremo di limitare i danni “in casa”, se sceglieremo di non vedere o di dimenticar. Meglio fare la nostra parte, condividere l’amore combattente. Lo facciamo per loro e per noi, lo facciamo perché è giusto e perché è necessario.
Il sottotitolo del libro è “Le ragazze iraniane camminano davanti a noi”. Cosa rappresenta questo “noi” e cosa ci manca per andare allo stesso passo?
Noi siamo proprio noi. Donne e uomini che ci sentiamo al sicuro, che consideriamo diritti e libertà un tesoretto garantito per sempre. Che, dal nostro rifugio, pensiamo di poter guardare all’Iran come ad altri luoghi squassati da guerre e rivolte con un’emozione intermittente. Sotto sotto, o forse sopra tutto e tutti, crediamo di essere avanti. Ormai oltre il confine del pericolo, ci consideriamo più fortunati e magari migliori… la scommessa del libro è invece la vicinanza. In Iran le ragazze vanno all’università nella stessa percentuale delle ragazze italiane. Sono il 60 per cento delle matricole, il 70 nelle facoltà scientifiche. Sanno benissimo quanto valgano e attraverso Internet vedono che cosa potrebbero fare in Paesi più liberi. Per questo sono arrivate, e arrivati, a pensare che la rivolta – quella che loro giustamente chiamano Rivoluzione – sia l’ultima via rimasta. E così io le vedo davanti, non dietro di noi. Perché rispetto a noi hanno qualcosa che noi abbiamo rimosso: il coraggio, la disponibilità di combattere in prima persona per mondi migliori. Noi, spesso, ci sentiamo appagati alzando il volume sui social network. Come se avessimo fatto “abbastanza” per la nostra coscienza.