di Giuseppe Nuzzi
Tra i volti più noti della televisione italiana, con il suo portamento posh e l’aria un po’ british che giocoforza ha introiettato nei lunghi anni da inviato Rai nel Regno Unito, Antonio Caprarica è il 40esimo vincitore del Riconoscimento Granzotto. Ha scritto per diversi giornali e periodici e ha viaggiato in Europa e in Oriente: non solo Londra, quindi, ma anche Parigi, Mosca, Afghanistan, Baghdad, Gerusalemme, il Cairo.
Il Granzotto è un riconoscimento per lo “stile nell’informazione”: qual è, allora, il suo stile?
Il primo elemento che mi viene in mente è “misura”, una parola che implica una certa idea di eleganza e trasferita nel racconto significa rispetto non solo verso chi ti ascolta, ma anche verso la materia della narrazione. Ovvero la tensione verso quel grado di verità che il mestiere di giornalista impone di ricercare. Naturalmente, misura non è autolimitazione: significa non diventare il cuore della notizia, ma ricordarci che siamo il mezzo attraverso il quale chi ci guarda o ci legge riesce a farsi un’idea corretta del mondo.
Il giornalismo come “strumento”: a suo tempo, è stato invece definito addirittura il “quarto potere”. Secondo lei è una definizione valida ancora oggi?
L’ho sempre trovata azzardata e fondamentalmente in malafede, perché mettendo il giornalismo alla pari degli altri poteri – politico, economico, religioso – finisce col renderlo sospetto portatore di interessi non dichiarati, e quindi non credibile. Se potere è, perlomeno in democrazia, il giornalismo è il potere dell’informazione e dell’opinione pubblica, il potere democratico per eccellenza. E questa è la sua grande forza, secondo la lezione del fondatore del Mail, lord Northcliffe: mettere a nudo ciò che il potere, quello vero, non vuole che si sappia.
È una grande responsabilità: il giornalismo italiano ne è ancora in grado?
Lo stato di salute del giornalismo è sempre precario, perché ha a che vedere con lo stato di salute della società che racconta. In Italia ci sono ottimi giornalisti e ottimi giornali che fanno il proprio dovere. Allo stesso tempo, vedo però un rischio di conformismo, per così dire, e soprattutto il rischio che il potere, nelle sue varie forme, cerchi di esercitare forme di monopolio sull’informazione. È come se ci fosse un fastidio nei confronti di chi fa il proprio dovere di informazione e anche di critica. Noto una certa riluttanza a confrontarsi con la stampa, soprattutto da parte di chi detiene le massime cariche di governo.
Se dovesse incontrare un o una giornalista alle prime armi, quali consigli darebbe per svolgere al meglio la professione?
Primo, tenere il timone fisso sulla propria coscienza. Secondo, coltivare sempre la curiosità e il dubbio. Terzo, studiare. Penso che ognuno di noi abbia una precisa percezione di quello che sta facendo, se va nella direzione giusta o se invece vira verso la convenienza e il tornaconto personale. Non bisogna essere degli eroi: di giornalisti-eroi questo Paese ne ha avuti fin troppi – pensiamo a Peppino Impastato, a De Mauro e a tutti gli altri. Per svolgere bene questo mestiere, in un modo rispettato e rispettabile, è fondamentale, come ammoniva il presidente Ciampi, avere la schiena dritta. E, aggiungo io, sapere di cosa si parla.
Lei è stato un grande inviato. Il 5 novembre sarà una data storica per l’America e non solo: quale scenario immagina?
I rischi sono sotto gli occhi di tutti: una rielezione di Trump sarebbe un colpo ai valori democratici dell’Occidente. Per l’Europa l’impatto sarebbe certamente negativo in termini di sicurezza, di commercio, di legami transatlantici. Ma per l’eterogenesi dei fini, questo potrebbe pure spingere l’UE a trovare finalmente in sé la forza necessaria per fare un passo in avanti: assieme i Paesi europei si salvano, da soli sono destinati a una sconfitta epocale. L’Europa è già il più grande mercato del pianeta, unita avrebbe la stessa formidabile massa d’urto anche sul terreno delle risorse intellettuali, economiche e persino militari.